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Recensione: Matthias Nawrat, L’ospite triste

“Silenzio, l’ospite parla”. Cosa potrebbe accadere se ci mettessimo all’ascolto, in una grande capitale europea come Berlino, di chi è arrivato da lontano? Recensione del libro "L’ospite triste", romanzo corale in cui l’autore, Matthias Nawrat, dà voce ai brulichii stranieri di una metropoli in espansione, annotati lungo incontri fugaci e inaspettati. Cosa accadrebbe? Potremmo essere sommersi dalla tristezza: ché c’è sofferenza in questi resoconti, ma c’è soprattutto un arrovellato lavorio del pensiero in chi ha attraversato confini ed esperienze estreme, forse senza riuscire a venirne fuori.

Pare cosa oramai assodata, che quella del flâneur sia più una predisposizione all’ascolto e alla vista che una mera attività di dislocamento motorio. Che il suo fulcro sia lo stupore, benché ricercato, di un incontro inatteso, ancora meglio se spiazzante e dietro casa. Che esistano luoghi più favorevoli, come le grandi capitali europee, zone più feconde, come determinati quartieri e periferie, e mezzi di trasporto necessari, prima fra tutti la metropolitana. E, infine, che l’incontro più bislacco sia il premio maggiore che si possa ottenere. Ce lo ricorda lo scrittore tedesco di origini polacche Matthias Nawrat col suo testo L’ospite triste, ora nel catalogo dell’Orma nella traduzione di Marco Federici Solari.

Berlino in ristrutturazione

È una voce narrante ad attraversare la capitale tedesca, la Berlino multiforme e semisotterranea di appena qualche anno fa, e a raccontarcela nella sua banalità quotidiana, nella sua sfaccettata autorigenerazione e nei frammenti di orrore improvviso e immobilizzante dettato dagli attacchi terroristici. Voce narrante che forse ha il timbro e la cadenza dell’autore, visto che anche lei si presenta come uno scrittore nato al di là del confine orientale tedesco. E non propriamente un flâneur, va detto; ché gli incontri che costellano queste pagine, e che danno al testo il brusio delle narrazioni corali, non sono mai ricercati volontariamente ma piombano improvvisi.

Capita, per esempio, che alla suddetta voce narrante passi per la testa l’idea di ristrutturare casa e si ritrovi quindi nello studio di Dorota, un’architetta polacca un po’ speciale. Dorota non esce mai di casa, le sue creazioni le vede soltanto in foto, e accoglie i clienti un po’ stupiti con grosse fette di torta. È evidente che nasconda qualcosa. Ed è proprio di fronte alla voce narrante che l’architetta, la prima e forse più imponente fra i numerosissimi personaggi dell’Ospite triste, al posto di stendere sul tavolo di lavoro ampi catasti in tripli fogli A3 arrotolati su sé stessi e ricontrollare planimetrie e misure si mette a raccontare la storia sua e della sua famiglia. Senza celare gli aneddoti della guerra o il sentimento di spaesamento quando Berlino aveva tentato di accoglierla, decenni prima. 

“Non ricordavo di che colore fosse il portone del nostro palazzo. Girai all’angolo successivo e quelle facciate liberty mi parevano identiche l’una all’altra, eppure dovrei avere un certo occhio per l’architettura, è pur sempre il mio mestiere. Svoltai di nuovo, e di nuovo tutto sembrava identico. Ogni volta che guardavo in un’altra direzione, dentro di me la mappa mentale della città si rovesciava, assumeva una nuova disposizione… O era forse la città stessa a cambiare forma? […] Deve essere stata una forma molto specifica di “negligenza spaziale”, per cui il mio cervello rifiutava di orientarsi nello spazio e sabotava tutto ciò che avrebbe potuto facilitargli tale compito.”

Una miriade di altri posti

Come l’architetta e come chi ci riporta le numerose storie, tutti i personaggi si sono ritrovati a Berlino dopo lunghi cammini, giungendo nella capitale tedesca da altre parti del continente. Viaggiatori, fuggitivi, attraversatori.

“Un giorno ero qui, in questa città, e incontrai un vecchio amico dei tempi della scuola. Era in giro per l’Europa come me, e si era impantanato a Berlino, così passava tutto il giorno a vagabondare”.

Le scene delle loro esistenze creano così un mosaico dell’adattamento e della perdita della bussola, declinati in tutti i campi dell’esistenza. Il tedesco slabbrato dagli accenti stranieri, per esempio, o la caduta a picco delle carriere sono appena alcuni degli aspetti sondati.

“Ho sofferto metà della mia vita per il fatto di parlare tedesco” dice uno dei personaggi, “e l’altra metà per il mio accento rumeno. […] Faccio l’attore, ho recitato in tutti i teatri d’Europa, a Marsiglia, Stoccolma, Praga, Belgrado, qui a Berlino e in una miriade di altri posti. Dovunque vado, conosco pregiudizi e tabù del luogo, ma me ne infischio. Sei ciò che sei perché vieni da dove vieni. E prima o poi devi smetterla di preoccupartene, devi imparare a fregartene.”

Eppure, la grande lezione di questa antologie di esperienze sembra essere l’inaspettato, gigantesco carico di conoscenze che la migrazione comporta. Nella vita precedente Dariusz era un chirurgo, e adesso potresti incrociarlo mentre ti fa il pieno di benzina in una stazione di servizio: mettersi ad ascoltare la sua voce significa chiacchierare sul terzo segreto di Fatima, dello skyline di Lublino, sul peso incalcolabile del lutto e sulle tipiche maree bretoni. Ma anche e soprattutto cadere bruscamente in tutta la catena di lacerazioni e distanze tipica di chi abbandona o si trova costretto ad abbandonare la sua terra natale.

I discorsi sono talmente profondi che la voce narrante non può che riportarli testualmente, senza il filtro del discorso indiretto: questo romanzo è, anche, un collage di frasi altrui, di interi capoversi fra virgolette – un ennesimo imperativo del flâneur, si potrebbe dire.

Mi sedetti su una panchina intenzionato a scrivere qualcosa sul mio taccuino, magari l’incipit di un racconto. Annotai la data, ma non mi venne in mente nient’altro. In passato, ricordavo vagamente, avevo segnato l’anno con ‘08’ o ‘09’. Ora appuntavo numeri a due cifre e non riuscivo più a immaginare come fosse stato in precedenza. Il numero a due cifre prima delle annotazioni contrassegnava ormai ogni aspetto della mia vita quotidiana.

Ospite chi? Triste perché?

L’ospite è triste, suona il titolo. Ma chi è l’ospite? Credo sia cosa troppo facile definire ospiti, a fronte della loro natura di attraversatori di frontiere, tutti i personaggi incontrati fra queste pagine. Interessante è invece il fatto che sia la voce narrante a ritrovarsi a casa loro, rivestendo quindi a pieno diritto il ruolo di colui che viene ospitato, l’invitato. Il suo è un cammino di dimore e stanze altrui, di soglie calpestate, ed è con estremo rispetto, oltreché con un’attenzione estatica, che si siede e ascolta. Va poi sciolto anche l’aggettivo, triste.

Anche in questo caso non è soltanto la lunga serie di prove estreme affrontate a dare a queste pagine la bruma fosca della tristezza; è anche, e in maniera evidente, la steineriana tristezza del pensiero, una sorta di pesantezza nell’impulso compulsivo al ragionamento e ai collegamenti, che dentro questo volume tende a farsi enciclopedia totale. Un aspetto tipico della letteratura mitteleuropea, della quale il romanzo di Matthias Nawrat, per temi, linguaggio, atmosfere e impasto degli argomenti, entra a far parte, con pagine meravigliose. – Lamberto Santuccio

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