Recensione: Sharon Dodua Otoo, Una stanza tutta per Ada

Lamberto Santuccio propone la recensione del libro "Una stanza per Ada", romanzo di Sharon Dotua Otoo (NN, 2022). Dietro il singolare del titolo, il romanzo racchiude quattro omonime protagoniste: l’Ada ghanese del Quattrocento; quella amata da Dickens nell’Inghilterra vittoriana; la terza rinchiusa in un campo di sterminio nazista e l’ultima che va a spasso, speduta, in una metropoli contemporanea. E non solo omonime, ché un’aura magica sembra collegarle a discapito dei secoli. Dall’eco della stanza descritta da Virginia Woolf, una spasmodica girandola narrativa sulla ricerca di sé stessi e della propria individualità.

L’omonimia è spesso un giochetto divertente; che si possegga un nome comune o invece uno più inusuale, a conoscere o sentir parlare di qualcuno che lo condivide, che se lo porta addosso anche lui fin dal primissimo giorno di vita, si instaura subito la ricerca delle affinità. Come se le lettere che ci contraddistinguono contenessero in loro la doppia elica dei geni, una combinazione che determina pezzi di destino e che si ripete in chi, allungando la mano destra verso uno sconosciuto, si presenta con la stessa e identica serie di suoni. Un po’ quello che avviene in Una stanza per Ada, romanzo d’esordio in lingua tedesca della scrittrice inglese originaria del Ghana Sharon Dodua Otoo, NNEditore (2022), nella traduzione di Fabio Cremonesi.

Quattro o cinque personaggi

Il romanzo ha infatti come protagoniste quattro figure femminili che portano tutte il nome Ada, distanti fra di loro nel tempo e nello spazio. La prima Ada vive nel Ghana del Quattrocento raggiunto dai primi colonizzatori portoghesi e ha appena perso il suo bambino.

La seconda vive nella Londra vittoriana, sa gestire cifre e sciogliere esorbitanti espressioni algebriche e ha come amante un tale Charles che ha già pubblicato Le avventure di Oliver Twist Canto di Natale.

La terza sta rinchiusa in un campo di concentramento nazista ed è costretta ad avere rapporti sessuali con gli individui, vittime e carnefici a diverso grado, che popolano quel luogo maledetto.

La quarta, infine, porta a spasso il suo pancione da ultimi mesi di gravidanza e la sua pelle scura da ghanese fra la capitale inglese e quella tedesca della nostra contemporaneità, alla ricerca di una stanza in affitto per poter finalmente sbarazzarsi dell’ospitalità della sorella.

E poi c’è una quinta protagonista femminile, una sorta di entità mutevole, un djinn in costante dialogo con Dio che può assumere forme diverse, essere ora un terremoto, poi un battiscopa o il battente di una porta d’ingresso, o trasformarsi in un passaporto, e che accompagna Ada in tutti i suoi cicli – Ada e non le Ade, perché questa stessa brezza camaleontica ci tiene a ricordarci che “tutti noi esseri viventi – passati, presenti e futuri – siamo collegati gli uni con gli altri, lo siamo sempre stati e sempre lo saremo”.

Una mirabile confusione

Per fortuna l’autrice non mette su una pala d’altare rigorosa dove le quattro figure si fronteggiano in maniera complementare con rimandi chiari; è come se Sharon Dodua Otoo si rifiutasse di giocare sull’idea di fondo del romanzo banalizzandola a cliché, a struttura da divertimento letterario.

Ciò che caratterizza maggiormente l’opera è invece una spessa nebbia di confusione che non si dipana facilmente. I personaggi di corollario vengono chiamati ma non definiti, i passaggi da un’epoca all’altra non seguono uno schema rigoroso e i punti in cui confluiscono, chiarendosi, le varie vicende arrivano davvero nelle ultime dozzine di pagine.

Anche il bracciale, oggetto mitico e centrale di tutte le storie, appare e scompare seguendo questo flusso in cui la narrazione si fa e disfa a un ritmo irregolare. E ad aggravare, o forse a sostenere e affiancare, questa confusione è presente anche il plurilinguismo, di cui la brevissima biografia dell’autrice ben spiega l’origine; portoghesi, dialetti africani, inglesi, tedeschi differenti vengono parlati nelle quasi trecento pagine, lungo le quali spesso i protagonisti non possono trattenersi dal chiedere di ripetere una frase o si ritrovano a dover usare perifrasi per farsi capire meglio.

Virginia Woolf, ovviamente

Le caratteristiche della protagonista (ora madre, ora corpo femminile, ora sposa) e il titolo stesso del romanzo non lasciano spazio al dubbio; il testo paradigmatico di Virginia Woolf viene subito a galla. D’altronde l’entità cui si accennava prima assume, negli anni Quaranta del secolo passato, le sembianze proprio di una stanza, quella che assiste all’orripilante mansione della Ada nel campo di concentramento tedesco.

Ma la potente riflessione dell’autrice di Orlando viene fuori soprattutto nell’Ada del ventunesimo secolo, quella che si sveglia un giorno e scopre che “Boris fucking Johnson aveva vinto le elezioni” e che la Brexit sta per diventare tragica realtà. Quest’ultima, infatti, attraversa tutta Berlino alla ricerca di una camera in affitto, di un posto tutto per sé, ma il suo accento, il colore della sua pelle e il suo stato interessante scandiscono una serie infinita di rifiuti da parte dei proprietari.

Sappiamo già benissimo che Una stanza tutta per sé travalica il femminismo e la condizione dell’artista, ma con Una stanza per Ada si chiarisce ancora di più la centralità della ricerca di sé e della propria individualità. O come dice lo spiritello, una stanza potrebbe benissimo essere la concretizzazione del progetto più importante dell’essere umano, quello di avere una storia personale da raccontare agli altri. Una storia o anche quattro. – Lamberto Santuccio

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