Recensione: Petar Andonovski, Paura dei barbari

La voce di Petar Andonovski è poetica, abitata da una grazia che sa raccontare non solo l’animo delle donne, ma la solitudine che circonda gli eccentrici, gli strani, tutti coloro che appaiono stranieri rispetto alle regole di un mondo che ha paura, delle donne e di chi è differente.

“Nelle isole i poteri vedono una prigione naturale / […] Nelle isole gli uccelli migratori vedono l’appoggio / per una sosta e poi rialzare il volo”, recita una poesia di Erri De Luca dedicata a Lampedusa e alle sue sorelle.

Nonostante la presenza degli stormi in aria, rileggendola non riesco a non pensare quanto poco si addicano alle isole i verbi di movimento.

Andare e tornare stanno sempre fuori dalla linea dalle loro coste, ne sono come delle tangenti geometriche, mentre le azioni di stasi, pesanti con la loro eco di secondini e mura, sono forse le più adatte, quelle il cui incastro risulta perfetto nella costruzione delle frasi.

Questo è anche il pensiero che mi ha attraversato la mente durante tutta la lettura di Paura dei barbari dello scrittore macedone Petar Andonovski, pubblicato da Crocetti nella traduzione di Milena Trajkovska, romanzo col quale l’autore ha vinto il Premio per la Letteratura dell’Unione Europea 2020.

Oksana e Pinelopi

L’azione raccontata nelle poche ma intense pagine del libro si svolge sull’isola di Gavdos, la concretizzazione reale di quel luogo quasi mitico dove andrebbe posizionato il confine ultimo dell’Europa meridionale; neppure la punta più a sud di Creta, sulle cartine isola ben più visibile e individuabile, scende geograficamente più in basso di un punto qualsiasi della piccolissima sorella. Su questo sputo di terra immerso nel Mediterraneo arrivano, in tempi diversi, le due protagoniste e voci narranti che si alternano fra i capitoli.

La prima ad arrivare è Pinelopi, cresciuta poco distante in un monastero che raccoglieva le orfane del circondario e che, come punizione per l’amicizia con una compagna ribelle e fuggiasca, viene data in sposa dalle suore a un rozzo abitante di Gavdos, che puzza di salsedine e capre e che la porterà sulla sua isola mettendola incinta.

La seconda è Oksana, di origine ucraina, scampata per un soffio all’incidente della centrale di Černobyl’ e arrivata sulla stessa isola, insieme ai due colleghi Igor ed Evgenij, per curarsi l’animo e il fisico dalle radiazioni. Raccontano entrambe, in due lingue diverse e incomunicabili tra loro in uno scambio diretto, rivolgendosi ad altre due entità femminili più o meno precisate, due figure sfocate fatte di ricordi che le ascoltano senza mai poterle interrompere, incatenate come sono alla loro assenza.

Una tragedia in prosa

Su queste premesse, tutte espresse con la frammentarietà della memoria, la narrazione si installa come in una tragedia greca. Il confronto col teatro attico classico non è una forzatura. Tutti i personaggi infatti, e le due voci narranti in particolar modo, sembrano anzitutto subire la punizione per un elemento del loro passato.

Si alternano vicende diverse, intrecciate lungo i rapporti fra i vari individui, che sfociano nel parossismo dell’omicidio, del suicidio o della scomparsa, senza dimenticare i filtri di erbe che conducono alla morte. Si resta fissi in una stessa posizione, le due stanze dove le protagoniste passano la loro esistenza quotidiana, e le storie che fanno da motore fra le pagine arrivano sempre a bordo dei racconti altrui, come tramite la tecnica dei messaggeri nelle opere di Sofocle ed Euripide che riepilogano ciò che non viene messo in scena. E la tensione della storia aumenta in misura dei capitoli sfogliati.

Barbari pericolosi, barbari incomprensibili

La tematica centrale, e il titolo lo sottolinea in maniera lampante, è lo sgomento per il diverso. L’arrivo di un’ucraina sull’isola più remota della Grecia non è soltanto un caso bizzarro, ma racchiude tutta la carica etimologica del termine barbaro.

Oksana balbetta una lingua non conosciuta, ascoltandone un’altra altrettanto incomprensibile, e questo preclude qualsiasi scambio di informazioni o passaggio di sentimenti. Nell’incomprensione aumenta e si rinfocola la paura, che sfocia poi, con la puntualità dell’orrore umano, in una caccia delle streghe. L’isola diventa quindi una metafora: luogo chiuso per eccellenza, questa ancora di più con gli stessi pescherecci che si avventurano raramente fino alle sue coste, non accetta l’intrusione dell’estraneo e, quando questo avviene, ne fa il punto di partenza nonché la causa di ogni avversità o complicazione del suo normale, ripetitivo, monotono scorrere del tempo.

Isolata dalla storia, senza i minimi accenni di un muro a Berlino o di una centrale elettrica implosa in Unione Sovietica, la popolazione isolana fa dei nuovi arrivati il capro espiatorio dei suoi torbidi intrecci.

La solitudine del femminile

Ma è soprattutto la solitudine delle donne l’elemento che Andonovski sa raccontare al meglio. Oksana e Pinelopi, ma anche la maestra Zoi, Stella la pazza del faro, le gemelle Aliki e Kiki, tutta una folla femminile inonda la storia e gli uomini si riducono, come si indicava prima, in semplici ausiliari delle vicende, narratori non protagonisti.

Alcune di queste fissano il mare e le sue onde, altre invece vorrebbero murare le finestre che danno sulla costa per evitare di osservare la massa d’acqua, ma tutte sono rinchiuse nelle loro stanze, isole elevate al quadrato perché rappresentano una solitudine chiusa dentro la già presente chiusura solitaria.

“Inventare storie è un atto di solitudine, un bisogno di dialogo, chi ha inventato le storie doveva essere molto solo” prende coscienza a un certo punto una delle due protagoniste. E l’autore ha saputo tradurre tutto ciò in pagine brucianti ed equilibrate, fortunatamente arrivate dalla sua terra poco conosciuta e dalla sua lingua poco parlata fino a noi. – Lamberto Santuccio

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