È cosa assai preziosa ascoltare chi ha vissuto la burrasca e ce la racconta. Recensione a cura di Lamberto Santuccio di "La vita di chi resta" di Matteo B. Bianchi, un intimo resoconto attorno al suicidio del proprio compagno. Con una sincerità disarmante, l'autore racconta la sua storia con S., dall’innamoramento alla nascita delle prime incomprensioni fino al gesto fatale. Nasce così un pensiero magico imprescindibile e di indescrivibile potenza, scritto dopo la depressurizzazione di vent’anni ma ancora aggrappato alle radici della carne.

La catastrofe è il suo protagonista – e accentata, verbo essere. Dalle tragedie greche ai romanzi dell’Ottocento, i titoli delle opere si sono spesso limitati al nome del o della protagonista, creando di conseguenza la nominalizzazione di un evento.

Chiedete a qualcuno di parlarvi, come si trattasse di un’opera appena uscita nelle librerie e di cui non si sa nulla, di Madame Bovary o di Medea; Giasone e Charles comparirebbero difficilmente come soggetto delle frasi, come esseri che compiono azioni, fulcro di una dozzina di parole tra punto e punto in cui viene esplicitato un loro stato d’animo. Non sempre è così, ovviamente.

Il calderone immenso della letteratura sulla Shoah, per esempio, ha affibbiato un nuovo ruolo al testimone, al sopravvissuto – chi ha attraversato l’orrore, chi ne è uscito senza aumentare di una cifra il computo vertiginoso, parla (anche) di sé; e sappiamo con quanta difficoltà e con quali campi semantici chiamati in causa.

La verità è che la sciagura veste la pelle di un individuo, ma brucia e smaglia tutta la rete umana tessuta intorno a quest’ultimo. Di questa attenzione attorno ai nodi più vicini alla vittima protagonista parla La vita di chi resta, ultimo romanzo di Matteo B. Bianchi con Mondadori (2023).

Survivor

S. e Matteo stanno ai poli opposti in molteplici campi, dai gusti musicali all’attività lavorativa, e anche il gap generazionale non poi così invalicabile li distanzia un po’, distinguendoli nelle amicizie e nel già vissuto. In riferimento a questo, S. conta anche una moglie e un figlio. Nulla di nuovo e, come tutti, i due trovano il giusto equilibrio, l’incastro pezzo su pezzo: c’è quello che guida sempre e quello che prende sempre posto sul sedile del passeggero. 

“Sai che non credevo si potesse essere così felici?”, si sente dire Matteo, e mai frase è più vivifica, mai nessune parole più pregne di esistenza. La loro storia, siamo negli anni Novanta, va così avanti per oltre un lustro, fino al momento in cui le crepe si allargano troppo e la relazione finisce.

Il centro del testo, però, si puntella su un evento che supera di tre mesi questa chiusura, nel giorno in cui Matteo, rientrando a casa dopo aver ricevuto un’inusuale chiamata da parte dell’ex compagno, ne ritrova il cadavere in quella stesse quattro mura che avevano a lungo condiviso. S. si è tolto la vita e per Matteo inizia una caduta a capofitto nel dolore più grande che si possa provare, una sofferenza che lo acceca e ingabbia, privandolo di parole, speranza e vie di fuga.

Cocci e incontri

In questo “libro a frammenti”, o “cocci”, “reperti”, “cose a pezzi, comunque” Matteo B. Bianchi ripercorre a singhiozzo il tumulto della sofferenza, della sua vita improvvisamente e inspiegabilmente tramutata da un orrore privato.

La perdita della razionalità che lo spinge verso medium e sensitive, la prigionia dei banchi a metà navata in chiesa durante il funerale, la chiusura in un recinto privato che è tutto incomprensione e incomunicabilità, l’alterità onnipotente dettata da un dislocamento dell’anima e dell’esperienza vengono a galla pagina dopo pagina.

Delineano il tunnel che questo sopravvissuto tumefatto e in lacrime deve attraversare. Insieme al survivor, però, appare anche il pubblico impotente di amici, colleghi e conoscenti, con tutti gli sgambetti dettati dall’incapacità nel gestire i discorsi e i gesti. Quindi alla fine c’è tutto il panorama di ciò e di chi resta, ma anche l’elenco di incontri inattesi; il suicidio, tabù sfiorato al cinema o nei prodotti delle case editrici, silente e mai troppo centrale, riaffiora in persone incrociate di sfuggita, forse le uniche in grado di saper indirizzare a Matteo le parole adatte.

Vuoto attorno

Perché l’angolo svelato da questa esperienza poi tradotta a inchiostro è il vuoto aperto intorno al sopravvissuto non soltanto dall’evento spartiacque, ma anche dall’assenza di ganci ai quali aggrapparsi.

Matteo è uno scrittore e, in quanto tale, è nelle pagine stampate che cerca salvezza; e ce ne sono, come dimostra di tanto in tanto un esergo posto a metà o tre quarti di libro (Didion e il suo Pensiero magico, ovviamente, ma anche Lidia Yuknavitch e Ocean Vuong), ma sono tutte pagine tardive, il confronto fra la data dell’evento e quello delle pubblicazioni lo dimostra nettamente.

Matteo, nelle sue successive ricerche, scopre anche, e noi ci sgomentiamo insieme a lui, l’assenza di un iter terapeutico puntualmente studiato e cucito attorno alla sua categoria, cioè creato per quegli individui – dati alla mano, sono numerosissimi – che subiscono questo dolore dalle coordinate uniche, non confrontabile a nient’altro. Soltanto le parole di chi ci è già passato sembrano mutarsi in un balsamo leggermente curativo; bisogna fiutarsi, riconoscersi fra simili, per approcciarsi e dare sostegno.

Vent’anni

Matteo B. Bianchi scrive questo libro a vent’anni di distanza. C’è ovviamente il tempo di depressurizzazione e di stacco fisiologico, anche se vissuto sempre prendendo note mentali. Vanno aggiunte le modalità tipiche dell’autore, che ha sempre avuto bisogno di lasciare il manoscritto in un cassetto e di tornarci sopra tempo dopo, anche molto tempo dopo.

““Era inevitabile che raccontassi il mio inferno portatile, quello che mi porto appresso da allora, ma capire quale fosse la distanza emotiva giusta è stato più complicato del previsto”.

Tutto questo fa però parte della storia che sta al di fuori della copertina e che non siamo poi tenuti a sapere. Ciò che conta e si nota è che l’autore ha evidentemente sentito un bisogno, forse anche una responsabilità e una necessità di raccontare.

Lo dice in maniera esplicita: “Se scrivo questo libro è anche perché avrei voluto leggere io allora un libro così, sul dolore di chi resta”. La conseguenza è una definizione precisissima del destinatario:

“Non a chi queste cose non le vivrà mai, non ai lettori, non al pubblico. Pensavo ai parenti dei suicidi, ai figli, ai padri, alle madri, ai mariti, alle mogli. A chi rimaneva. Agli altri me.”

Quasi duecentocinquanta pagine, quindi, da maneggiare con estrema cura, ma da maneggiare comunque. Ci può essere soltanto e anzitutto estrema gratitudine per chi le ha scritte. – Lamberto Santuccio

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